La discussione sulla criminalità organizzata in Italia è più estesa che in Germania, come lo dimostra il fatto che si tengano seminari sull’argomento durante le vacanze del semestre estivo. Mafia? Nein, danke? nel settembre di quest’anno ha partecipato alla Summer School on Organized Crime, organizzata dall’Università degli studi di Milano. Il tema di quest’anno è stato il rapporto tra i media e la mafia, argomento assai importante per il ruolo che il giornalismo riveste nel descrivere la realtà.
Il tema di quest’anno era il rapporto tra mafia e informazione e le persone intervenute – giornalisti, ma anche ricercatori e politici – sono state prevalentemente giornalisti che con le loro inchieste hanno sperimentato cosa significhino l’intimidazione e il rischio per la propria vita e per quella dei propri cari. Alcuni di loro sono stati minacciati, altri isolati, altri ancora hanno raccontato le vicende di loro colleghi che sono stati uccisi; il giornalista che oggi racconta di mafia rischia non tanto la vita, quanto la solitudine e l’emarginazione.
Nel corso della storia italiana la mafia ha ucciso undici giornalisti, di cui sei lavoravano a “L’Ora”, quotidiano con sede a Palermo, ed è proprio a “L’Ora” che nel 1958 un pool di giornalisti pubblica l’inchiesta sulla mafia dal titolo “Quest’uomo è pericoloso”: è la prima volta che il boss Luciano Liggio viene sbattuto in prima pagina e che la mafia ha un nome e cognome.
Studiare la mafia vuol dire studiare la storia d’Italia, e infatti la storia della repubblica italiana ha avuto inizio nel 1947 nello stesso anno in cui è avvenuta la strage di Portella della Ginestra, un chiaro tentativo di impedire l’evoluzione democratica del Paese. Quella strage esprimeva anche la volontà delle mafie di sovrapporsi alla Costituzione formale, che del resto sarebbe stata approvata pochi mesi dopo: in seguito continueranno a perseguire questo obiettivo cercando di modellare il consenso e creando una mitologia su se stesse.
Nel corso della Summer school si è molto riflettuto sull’attenzione posta dai media italiani in merito al tema della criminalità organizzata: se negli anni Sessanta c’era una grande attenzione per il reportage giornalistico e gli approfondimenti del TG1 venivano mandati in prima serata, oggi spesso l’orario della messa in onda è le 23.40.
Quella che i mafiosi interpretano come il superamento di un limite non è altro che la sete di conoscenza propria dei mestieri intellettuali, fondati sul dubbio e sulla ricerca: dopotutto, come è stato notato, la parola scoop significa testualmente “scavare col cucchiaio”. I giornali sono cambiati, da essere scritti per i lettori sono passati al compiacimento degli editori e quindi al conformismo e al silenzio sugli argomenti che potrebbero disturbare qualcuno; un primo cambiamento, un primo allontanamento della stampa dal tema della mafia, era già percepibile negli anni Ottanta, quando i movimenti giovanili antimafia furono prevalentemente sminuiti.
Le fiction suppliscono all’assenza di informazioni che la stampa dà sull’argomento, ma il rischio di banalizzare e di spettacolare la mafia è molto alto se chi guarda le serie televisive non può parallelamente disporre della sufficiente informazione sui temi. Come potrebbe essere altrimenti in un Paese in cui i media parlano così debolmente della trattativa Stato-mafia e del caso Montante*?
L’eccessiva semplificazione riguarda spesso anche i modi in cui si scrive di mafia, perché è facile leggere delle notizie che in realtà sono dei semplici copia e incolla: come è stato affermato con forza nel corso di questa Summer school, l’Italia è fatta di province e di territori ed è ripartendo da questi che può essere ritrovato il senso del mestiere di giornalista.
[*approfondiremo il caso Montante nella prossima Newsletter]