Mentre il mondo era alle prese con il fenomeno Corona Virus, nel 2020 nasceva su Tik Tok un fenomeno altrettanto virale e piuttosto bizzarro: la “moda” tra i membri della comunità LGBTQIA+ di chiamarsi “Alphabet Mafia”. I numeri sono chiari e impressionanti: 1.4 bilioni di hashtag #alphabetmafia. Quattrocentomila sono i “mi piace” che -in media- riceve un singolo video con questo hashtag, ma tra i video piú popolari se ne trova uno con ben sette milioni di cuori. Le interazioni con tali contenuti hanno reso il termine progressivamente sempre più popolare, tanto da divenire la nuova etichetta identificativa della comunità, sia nel mondo social sia inevitabilmente nella realtà. Così Demi Lovato lo usa nel suo coming out al Joe Rogan Experience podcast, in cui dice: “I’m part of the Alphabet Mafia and proud”.
In qualità di associazione antimafia, mafianeindanke halanciato una campagna contro l’utilizzo inappropriato del termine mafia, per combattere gli stereotipi associati ad essa. Vorremmo perciò usare questo spazio per andare a fondo del fenomeno.
Come “alphabet mafia”, la comunità LGTBQIA+ si paragona deliberatamente con un’organizzazione mafiosa e ne adotta pure le gerarchie
Facendo un’analisi dei contenuti, della lingua utilizzata dagli utenti e del frame culturale si potrebbe affermare che l´Alphabet mafia sia un prodotto del Tik Tok Americano, inteso come il continente nella sua globalità. Ma non solo, perché si trovano anche video di utenti di tutta Europa. Uno dei primissimi utenti ad usare il termine è stato Kamiron Pate o @kamironx; nel tik tok si lascia andare ad uno sfogo personale dicendo che sebbene i membri dell’́ “alphabet mafia” siano stereotipicamente vegani/vegetariani, lui non potrebbe rinunciare alla carne. Proprio per aver utilizzato quel termine, il video diventa virale con 586.5K mi piace. Nella maggior parte dei casi il contenuto taggato #alphabetmafia è un cosiddetto POV (Point of View), strategia molto popolare su Tik Tok. Solitamente si tratta di simulazioni di scene di vita verosimilmente quotidiana, con lo scopo di far ridere ma anche riflettere sulla situazione che viene mostrata. Il POV è una strategia per far vedere la scena attraverso gli occhi di un personaggio, perciò permette essenzialmente di empatizzare. Va da sé che nel mondo LGBTQIA+, il quale subisce tutt’oggi ancora numerose discriminazioni, questo è un vero e proprio strumento di advocacy per i diritti.
I POV #alphabetmafia consistono per lo più in sketch che ricalcano situazioni verosimili di dibattito sull’identità di genere, orientamento sessuale, identificazione sociale e diritti civili dal punto di vista di un membro della comunità queer. Ma i POV più interessanti sono anche quelli più paradossali, in cui l’affiliazione alla LGBTQIA+ viene paragonata ironicamente all’affiliazione nella “famiglia mafiosa”. Questo avviene non tanto nei riti o modalità quanto nell’impostazione del linguaggio verbale e non verbale.
Un esempio: la creator @notstraightkait (330.0K Followers) interpreta in un POV due personaggi allo stesso momento, un giovane nuovo membro della comunità LGBTQIA+ ed un membro più “anziano”. Il membro più anziano siede comodamente al tavolo e con l’accento del Padrino accoglie “formalmente” nell’Alphabet mafia il membro più giovane. Il giovane perplesso chiede se l’Alphabet mafia fosse la comunità LGBTQIA+ ed il membro anziano risponde con tono deciso “certo, è così che ci chiamiamo ultimamente”. Quando il nuovo arrivato chiede se -in qualità di mafiosi- fosse permesso utilizzare la violenza contro “gli omofobi” il boss risponde: “ma certo, li accechiamo. Li accechiamo con la luce di mille arcobaleni!!”.
Dall’onda della popolarità del termine nasce anche il brand-community “The Alphabet Mafia” che attraverso la vendita di prodotti con il proprio logo (abbigliamento e accessori) si occupa anche di fare advocacy; è infatti attivo su tutti i social e su Spotify con l’omonimo canale. Dalla pagina web si legge: “La nostra missione è quella di creare uno spazio sicuro e accogliente per gli individui di tutte le origini e orientamenti, e di fornire supporto a coloro che stanno lottando con la loro identità. Vogliamo che il nostro logo serva da faro per i membri della comunità e per chiunque si senta perso, solo o spaventato. Perché in The Alphabet Mafia non sei mai solo, tu sei l’eroe.” Alphabet Mafia è quindi un creatore di contenuti, intrattenitore, logo, brand: un simbolo del mondo LGBTQIA+ che perfettamente incarna la caleidoscopica e trasversale natura dell’attivismo di questi anni.
Ma l’esempio più inquietante che abbiamo trovato è decisamente quello in cui si associano i ruoli stereotipati della famiglia mafiosa con i membri della comunità queer, in un video che viene visto 495 mila volte. In questo post su Twitter un’utente pubblica un tale sistema gerarchico ed invita altri a rispondere con il loro rango.
Abbiamo trovato anche altri tentativi simili però “mal” riusciti, dove al posto di ruoli nella famiglia mafiosa si citano gradi e qualifiche militari -prova lampante di quanta confusione di base ci sia verso il termine. Ad esempio su Tumblr si legge un intervento dal titolo “Alphabet Mafia (LGBTQ+) Ranks” che continua: “Lieutenant: Lesbian, General: Gay, Brigadier: Bisexual, Technical Sergeant: Transgender, Quartermaster: Queer, Admiral: Asexual, Air Marshal: Aromantic” e così via.
Da dove nasce la relazione simbolica tra l´LGBTQIA+ e la mafia?
L ́origine non è certa, ma si pensa sia stato in prima istanza coniato da persone appartenenti ad ambienti intolleranti e conservatori che intendevano prendersi gioco del sempre crescente acronimo LGBTQIA+ -in seguito addirittura LGBTTQIAAP. Il termine alphabet mafia inteso come insulto era volto a demonizzare le persone non eteronormative implicando che fossero membri di una segreta e sgradevole cabala. In questo uso di “mafia” –quasi certamente coniato da un pubblico non-italiano- si percepisce l’intenzione di far passare una caratteristica di “sensazionalità” e “teatralità” da affibbiare a tutti i costi alla LGBTQIA+. Sfortunatamente per chi voleva renderlo un “insulto” il nome viene invece rivendicato e persino adottato dalla comunità stessa. Reclamando il termine come auto-identificativo, la famiglia arcobaleno ha iniziato a riferirsi ai propri membri come mafia dell’alfabeto. Ma qual è lo scopo nel reclamare un ex-insulto? Le etichette di gruppo sono strumenti potenti: categorizzano, trasmettono informazioni e stabiliscono delle relazioni di potere tra i gruppi sociali. Quando una maggioranza usa un’etichetta in modo dispregiativo per emarginare i membri di un gruppo di minoranza, i primi si stabiliscono naturalmente in una posizione di superiorità. Ma dal momento in cui viene reclamata dal gruppo di minoranza come identificativa, la stessa etichetta perde lo scopo denigratorio. L’etichetta diventa essa stessa lo strumento per decostruire la relazione di potere e capovolgere la situazione. Questa dinamica, chiamata reclaiming, si ripete di frequente; è successo con la stessa parola queer e poi con la N-word.
Sulle pagine web e all’interno di discussioni informali sui social circola invece la convinzione che in realtà ci sarebbe un’altra motivazione dietro all’ ́origine del termine alphabet mafia. Sembra che uno dei principali motivi sia per far fronte al “banning” cui la terminologia LGBTQIA+ è sottoposta su Tik Tok. In altre parole, l’algoritmo di Tik Tok tende a vietare qualunque termine che faccia riferimento alla comunità arcobaleno tra cui, ovviamente, in primis lo stesso acronimo. Per questo talvolta si trovano anche parole scritte diversamente, magari con simboli al posto di lettere, proprio ad ingannare l’algoritmo – ad esempio “l$bean”(lesbian) oppure “tran$”(trans). In ogni caso, oggi, l’uso del termine si è diffuso a macchia d’olio.
L’́associazione tra comunitá queer e mafia non è comunque assolutamente nuova. Troviamo le prime allusioni a questo fenomeno giá negli anni Settanta. All’epoca si parlava di “Velvet Mafia”, termine che includeva Calvin Klein, Truman Capote, Halston, Andy Warhol e Jann Wenner ed era utilizzato in senso scherzoso per descrivere una “potente cricca sociale”. La parola è stata ampiamente utilizzata dai mass media negli anni Ottanta e Novanta. Il termine è stato spesso usato anche come sinonimo dell’“agenda gay” -la fantomatica “cospirazione” queer che voleva rovesciare l’ordine morale tradizionale. Il termine diventa ancor più famoso dopo un’intervista del 2002 di Vanity Fair a Michael Ovitz. L´allora agente/manager piú potente di Hollywood accusa i mediatori dell’industria – la cosiddetta “mafia gay” – di cospirare contro di lui. Si può dire che la “Gay Mafia” sia ormai parte integrante della cultura cinematografica americana e britannica, e abbiamo numerosi esempi di serie TV in cui viene nominata, da Will&Grace a I Simpson. Anche Robin Williams nel suo speciale “Live on Broadway” fece riferimento alla mafia gay.
Collaborazione della mafia con la comunità LGBTQIA+
Gli anni Sessanta vedono –contro ogni aspettativa- una collaborazione fruttuosa tra la comunità LGBTQIA+ di New York e la mafia italiana. La comunità LGBTQIA+ sbocciava proprio nei bar del West Side Manhattan, ma i suoi membri avevano pochi luoghi pubblici per riunirsi, perché al tempo mostrare l’omosessualità in pubblico era illegale. Proprio in quella zona -fin dal Proibizionismo- gran parte del business dei locali notturni era gestito dalla mafia. Ma all’epoca la mente imprenditoriale della mafia vedeva nella comunità LGBTQIA+ un business d’oro. Così Tony Lauria alias “Fat Tony” -della potente famiglia Genovese- acquistò lo Stonewall Inn nel 1966 e lo trasformò in un nightclub gay. Pagando una quota settimanale alla New York Police Department, Fat Tony si assicurava di non ricevere controlli o riceverli in orari meno frequentati, così da poter continuare la propria attività indisturbato. Lo Stonewall Inn divenne un punto di riferimento per la comunità gay, ma il business della mafia si scontrò fin da subito con gli interessi della stessa comunità LGBTQIA+. L’attività della famiglia si spostò infatti verso la gestione della prostituzione gay: i buttafuori dei nightclub facevano da “papponi” ai clienti.
La polizia di New York tentò un’indagine in proposito che fu presto interrotta a causa dell’implicazione di troppi individui di alto potere – inclusi membri della mafia stessi, ufficiali di polizia e grandi nomi di Hollywood -come clienti. “Gay Prohibition: Corupt$ Cop$ Feed$ Mafia” (“Proibizionismo gay: poliziotti corrotti alimentano la mafia”) si leggeva su una finestra dello Stonewall Inn durante le famose rivolte del 1969. Molti studiosi hanno infatti sostenuto che proprio lo sfruttamento della comunità gay da parte della mafia fosse uno dei motivi principali per cui le rivolte di Stonewall ebbero inizio in primo luogo.
Il mondo mafioso e quello queer: inconciliabilità e.. paradosso?
L ́approccio della mafia italiana è ben diverso da quello della mafia italo-americana rispetto alla comunità queer. In una intervista del 2016 di Arcigay, Roberto Saviano afferma: “L’omofobia è molto presente nell’ambiente della criminalità e il tasso d’omofobia varia da clan a clan. […] ogni clan ha la propria interpretazione dello stigma omofobico. […] Negli anni ’80, non potevi entrare in Cosa Nostra se eri omosessuale, se avevi parenti omosessuali o se i tuoi genitori erano divorziati. Il rigore moralistico, rigore apparente s’intende, di queste organizzazioni è enorme perché si ha paura di qualsiasi cosa sia espressione di libertà.” e continua: “In diversi casi l’omofobia ha avuto a che fare con omicidi o fatti di mafia e camorra. […]Spesso ci sono pestaggi e minacce a parenti di affiliati ai clan perché omosessuali. La presenza di persone omosessuali sporca l’immagine del clan”. Bisogna anche sottolineare però che sono passati circa vent’anni da questi episodi e le cose si stanno, sorprendentemente, evolvendo. Sulle testate giornalistiche si legge spesso di cambi di approccio della mafia rispetto all’accettazione di “storie non convenzionali” (per usare la terminologia mafiosa). A quanto risulta dalle intercettazioni del magistrato Nicola Gratteri e del criminologo Antonio Nicaso, diversi affiliati alla ‘Ndrangheta sembrano essere effettivamente legati da storie omosessuali.
Ma oggi si rischia ancora –come vent’anni fa- di essere uccisi per tale motivo? Lo spiega chiaramente Enzo Macrì, procuratore generale di Ancona ed ex Procuratore nazionale antimafia: «Non è che un boss possa fare coming out in modo plateale. L’omosessualità nella mafia è ancora un tabù sotto il profilo del costume, ma il grande boss può permettersi di essere omosessuale senza temere di essere ucciso. Dipende dai rapporti di potere: i mafiosi di piccolo calibro devono tenersi nascosti altrimenti vengono espulsi anche in maniera violenta. Ma se è un capo, allora se lo può permettere. Nessuno osa toccarlo: questa è la vera novità. Si può essere gay e mafiosi» Ed in effetti è così: ci sono numerose prove di storie omosessuali vissute alla luce del giorno o di lettere d’amore scambiate tra giovani boss in carcere. Nella società mafiosa comunque, non se ne parla apertamente. Resta sempre –chiaramente- un tabù, ma soprattutto rappresenta una vergogna a livello sociale.
Dall´altro lato, però, è fondamentale dire che l´accettazione dell’omosessualità dipende molto dal tipo di mafia di cui si parla. La Ndrangheta affonda le sue radici nel rapporto tra le famiglie -che rende talvolta consanguineo. Per un capo di Ndrangheta è quindi difficile soprattutto da un punto di vista pratico: un/a figlio/a omosessuale non potrebbe unirsi con un partner del sesso opposto, portare avanti il nome della famiglia e quindi non poter portare avanti le attività che traggono profitto da queste “nuove” parentele. Mentre per quanto riguarda la Camorra la situazione è diversa: «La camorra è la meno omofoba tra le varie organizzazioni. […] Diciamo che quella [camorra] urbana è la più ‘aperta’ sessualmente, ricalcando in questo senso un certo spirito napoletano da sempre tollerante verso le minoranze» così ha spiegato Raffaele Cantone, ex PM della DDA di Napoli e magistrato della Corte di Cassazione. Con meno tolleranza, invece, è accettata l´omosessualità da parte dei membri di Cosa Nostra.
“Mafia” come identificativo queer, divertente o rischioso?
Per come è stata reclamata dall’ alphabet mafia, la parola “mafia” ha assunto un’accezione positiva, inclusiva e pacifica: vuole far sentire a casa. La parola viene spogliata delle sue connotazioni tipiche: violenza, discriminazione, rispetto dell’onore, gerarchia, controllo, potere, legame viscerale. Ma la più importante è la connotazione machista, che trova il valore del maschio nell’appartenenza alla famiglia mafiosa. È la mafia in cui la donna deve stare zitta, supportare, farsi da parte, cucirsi addosso il suo ruolo di nutrice, mamma e moglie. Mafia è esasperazione della società patriarcale, conservatrice, misogina. Questo stesso nome, mafia, si legge oggi sulle magliette della comunità LGBTQIA+.
Eppure è usata nella connotazione più lontana dall’originale: la mafia “dell’alfabeto” è progressista, femminista, intersezionale, lotta contro la discriminazione, è diversity inclusion. Quindi ci si potrebbe chiedere: cos’è che accomuna l’utilizzo di mafia in contesti così diversi? La risposta è il concetto di famiglia, che è molto importante per le mafie. La famiglia protettrice, la famiglia accogliente, la famiglia inteso come gruppo di appartenenza fortemente vincolante. Ma la percezione che anche famiglie mafiose sono così è sbagliata; lo provano numerosi esempi. La ragione principale per cui oggi si utilizza il termine mafia con tale superficialità è da trovare nella mancanza di consapevolezza su ciò che significhi “mafia” davvero. Questo è senza dubbio il risultato della cultura popolare cinematografica e letteraria, che ha contribuito a “romanticizzarla” ed idealizzarla. La mafia a cui si fa riferimento è cool, leggendaria, quasi fonte di ammirazione. Spesso in queste rappresentazioni cinematografiche non vengono dati dei modelli positivi forti: è chiaro, quindi, che restano soltanto i criminali con cui identificarsi. Ma la mafia non è un bel film da vedere al cinema. La mafia è un incubo dal quale non si può uscire, che non si è scelto, che soffoca la libertà e toglie un po’ più d’aria ogni giorno.
Proprio per questo alcuni membri della comunità LGBTQIA+ si sono indignati e ribellati all’uso di questo termine, chiedendo rispetto per tutte le vittime che per mano di “mafia” hanno perso la vita. Ma tutto ciò non è ancora lontanamente sufficiente; le poche voci critiche online sono ancora in minoranza. È necessario far nascere la consapevolezza nei giovani queer che il termine “mafia” è tremendamente inappropriato. Per questo mafianeindanke, come associazione, vuole sfruttare la sua visibilità per rivolgersi direttamente a queste piccole e grandi realtà che fanno advocacy e vendono merchandising su larga scala, talvolta oltreoceano, chiedendo loro di riconoscere la problematicità del termine e trovare un’alternativa. Si potrebbe pensare di avvicinarsi ai grandi nomi, ai pionieri della lotta LGBTQIA+, coloro che hanno nella storia sacrificato la propria vita. In questa battaglia sarebbe importante farsi rappresentare da modelli positivi, e non da simboli criminali.
Come abbiamo imparato finora nella storia dell’uomo, le grandi battaglie cominciano da piccoli gesti. Piccoli gesti che si diffondono, si moltiplicano, si espandono. Quei gesti diventano abitudini collettive, che giorno per giorno, costruiscono la società del futuro.
Piccole ma grandi cose, come una parola.
Questo articolo è stato redatto da Giorgia Cacciatori che dall’anno scorso lavora per mafianeindanke come membro del corpo europeo di solidarietà. La versione tedesca è stata pubblicata in una versione abbreviata e leggermente cambiata anche nel settimanale tedesco “Der Freitag”.