‘ndrangheta in Emilia-Romagna: le conclusioni del Processo Aemilia

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Martedì 16 ottobre si è svolta la 195esima e ultima udienza del processo Aemilia, relativa all’operazione iniziata nella notte tra il 28 e il 29 gennaio del 2015 che ha fatto emergere l’esistenza di una ‘ndrina attiva da anni in Emilia-Romagna e nel mantovano con epicentro a Reggio Emilia, autonoma ma diretta emanazione della cosca Grande Aracri di Cutro.

Come già riferito in qualche newsletter fa, questo è il più grande processo per mafia mai tenuto nel Nord Italia, con più di 200 imputati accusati di appartenere a un unico clan della ‘ndrangheta o di essere a esso collusi. Le accuse sono di: estorsione, usura, intestazione fittizia dei beni, falso in bilancio, detenzione illegale di armi, emissione di fatture false, caporalato e riciclaggio, fino ad arrivare al reato più grave: l’associazione a delinquere di stampo mafioso.

Tra gli indagati non ci sono solamente i presunti affiliati al clan, ma anche coloro che a quel clan si sono rivolti per evadere le tasse, per aumentare i profitti e per aggiudicarsi gli appalti. Il settore dell’edilizia è quello maggiormente coinvolto, in modo particolare lo sono gli appalti per la ricostruzione a seguito del terremoto del 2012.

Sono stati processati 150 imputati, le condanne sono 118 con rito ordinario (la più alta a 21 anni e otto mesi) e 24 con rito abbreviato per 325 anni per reati commessi dal carcere durante il processo: in totale si parla di oltre 1200 anni di carcere.

Gianluigi Sarcone, fratello del capo in Emilia Nicolino e reggente della cosca reggiana, è stato condannato nel rito ordinario a tre anni e sei mesi, contro i 18 chiesti dalla Procura.

La pena più alta è stata inflitta a Carmine Belfiore, 21 anni e otto mesi. Tra gli imprenditori emiliani collusi con la ‘ndrangheta, ci sono i fratelli Palmo e Giuseppe Vertinelli, condannati entrambi a quasi 30 anni (sommando i due riti) e Omar Costi (13 anni e nove mesi). Nella politica invece, è stato condannato a nove anni in ordinario (ne avevano chiesti 19) e 14 anni nell’abbreviato Eugenio Sergio, parente della moglie del sindaco di Reggio Emilia Maria Sergio.

Giuseppe Iaquinta è stato condannato a 19 anni per associazione mafiosa, dopo essere già stato oggetto nel 2012 di un provvedimento dal prefetto di Reggio Emilia che gli vietava di detenere armi e munizioni proprio a causa della scoperta di rapporti con la ‘ndrangheta. Il figlio dell’imputato è l’ex calciatore della Juventus Vincenzo Iaquinta e ha anch’egli giocato un ruolo in questa vicenda, infatti è stato condannato a due anni per detenzione di armi.

Nel rito ordinario il collegio presieduto da Francesco Maria Caruso e composto dai giudici Cristina Beretti e Andrea Rat ha assolto 24 persone; un imputato è deceduto prima della sentenza, cinque casi sono andati in prescrizione.

Uno degli imputati, Francesco Amato – condannato a 19 anni per associazione mafiosa – , il 5 novembre ha preso in ostaggio cinque persone chiedendo di incontrare il Ministro dell’Interno Matteo Salvini: si è consegnato spontaneamente dopo otto ore di trattative. Questo episodio ha fatto naturalmente crescere la tensione attorno ai giudici del maxi processo.

Le reazioni violente di alcuni imputati rivelano la difficoltà nell’accettare che sia stata scoperta la presenza della ‘ndrangheta a Reggio Emilia e nel Nord Italia in generale: come ha commentato Giuseppe Amato, procuratore capo di Bologna e coordinatore della Direzione Distrettuale Antimafia, il processo Aemilia è stato un successo dell’antimafia ma è anche la presa in considerazione giuridica di un fenomeno già da troppo tempo conosciuto e sopportato dagli emiliani.