Frodi IVA: un problema che l’Europa non riesce a controllare

Nel 1993 venne introdotto il trattato di Maastricht (o Trattato dell’Unione europea TEU). Uno dei principali obiettivi del trattato era la creazione di un singolo mercato all’interno del cui beni, persone e capitali potessero circolare, fra i paesi dell’unione, liberamente quanto all’interno di ogni singolo stato. È innegabile che l’apertura dei confini abbia portato innumerevoli benefici (la possibilità di studiare, lavorare ed andare in pensione in uno qualunque degli stati membri; libero flusso di capitale e prodotti all’interno della UE ecc.). Tuttavia, un mercato privo di restrizioni è allo stesso tempo facile preda dei gruppi criminali, i quali sanno sfruttare al meglio l’abolizione dei dazi doganali o di altre imposte. In questo contesto, uno dei crimini più diffusi è l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA): una società criminale riesce, sfruttando le leggi comunitarie, a non pagare le tasse su prodotti che vengono spediti ad un altro stato dell’Unione. Secondo una stima dell’Europol, ogni anno gli stati dell’Unione perdono fra i 40 ed i 60 miliardi di euro per mancata tassazione sul valore aggiunto.

Secondo le regolazioni della EU, quando una società A vende i propri prodotti ad una società B situata sul territorio di un altro stato membro, la società A è esentata dal pagare l’IVA nel proprio paese, e l’onero di provvedere al pagamento spetta alla società B, la quale è tenuta a dichiarare il bene ottenuto e pagare la relativa IVA nel paese di destinazione del prodotto. Accade però talvolta che la società B, anziché dichiarare la merce ricevuta, rivenda immediatamente quest’ultima ad una terza compagnia (una società C nello stesso stato UE per esempio); generalmente, quest’ultimo atto di vendita viene concluso in tempi strettissimi. Nonostante la compagnia B sia tenuta ad inserire l’IVA nella fattura, il prezzo di base del prodotto rimarrà inferiore a quello della concorrenza sul mercato. La società B, infatti, prevedendo di non pagare l’IVA al governo, può permettersi di mantenere basso il prezzo del prodotto. La società C successivamente, consapevole o meno che sia della infrazione commessa da B, farà comunque richiesta al proprio governo di rimborso dell’IVA. Nel frattempo B sarà semplicemente scomparsa dalla circolazione (dichiarando bancarotta, per esempio) senza aver pagato l’IVA su di un bene proveniente da un altro stato membro. In aggiunta B non trasferirà a C l’IVA fatturata durante la vendita del prodotto. Operazioni come questa possono essere effettuate da numerosi partner (molti più dei 3 presi ad esempio). Possibilmente, alla fine del processo il prodotto ritornerà in possesso della società iniziale A. Ciò significa che le merci viaggeranno in circolo – da qui il nome “carousel crimes” (frodi carosello). In certi casi i beni in questione non lasciano nemmeno il paese d’origine e gli atti di vendita esistono solamente sulla carta.

Il genere di prodotto che più si addice all’evasione dell’IVA sono i beni di grande valore come smartphones, gioielli, prodotti di elettronica ecc. Tuttavia non sono soltanto i beni tangibili ad essere bersaglio della malavita. Un esempio su tutti: l’evasione fiscale che ha coinvolto il gigante tedesco Deutsche Bank nella vendita di certificati verdi sulle emissioni di CO2 fra il 2009 ed il 2010, nell’ambito del cui venne perpetuata una evasione dell’IVA per una somma pari a 145 milioni di euro. Nel giugno del 2016 si è concluso il processo agli impiegati della Deutsche Bank con una condanna a 3 anni di reclusione ed altre sei condanne poi sospese o abbonate con condizionali fino a 200 000 euro. Per citare un altro esempio: nel 2015, nel contesto di una inchiesta su vasta scala su evasione dell’IVA chiamata vertigo, venne portata alla luce una maxi frode (circa 150 milioni di euro) che interessava attività aventi sede in Repubblica Ceca, Germania, Paesi Bassi e Polonia. Tra gli altri paesi coinvolti in questo caso di frode carosello su larga scala anche Spagna, Regno Unito, Belgio, Cipro, Danimarca, Lussemburgo, Gibilterra ed Ucraina.

Il dibattito sulla frode fiscale ha preso piede a partire dal 2006. A 10 anni di distanza gli obiettivi principali restano gli stessi: al fine di combattere l’evasione dell’IVA, l’Unione Europea si prefigge di aumentare i controlli incrociati fra dichiarazioni d’imposte e registri degli oneri doganali, rinforzare la cooperazione del sistema giuridico ed amministrativo fra gli stati membri e mantenere sempre più alta l’attenzione su completezza e cronologia delle transazioni. Una delle strategie messe in atto per tamponare le perdite annuali causate dall’evasione dell’IVA è quella della inversione contabile (“reverse charge rule”), in base alla quale l’obbligo del pagamento dell’IVA, anziché essere a carico del venditore, viene applicato al compratore (solo se quest’ultimo corrisponde ad un soggetto passivo sul territorio dello stato). Questa soluzione aiuta a combattere il fenomeno della frode della “società fittizia” (“missing trader”) – una società che, come B nell’esempio sopra, applica l’IVA ai propri clienti e successivamente scompare dal mercato senza versare i contributi allo stato. L’inversione contabile su scala europea rappresenta una misura temporanea che potrà essere applicata soltanto fino a Dicembre 2018. In aggiunta, può essere messa in pratica solo in particolari settori del mercato considerati ad alto rischio di frode carosello (edilizia, mercato delle certificazioni energetiche, telecomunicazioni e telefoni cellulari per esempio). Malgrado ciò la soluzione della inversione contabile ha suscitato accesi dibattiti. Alcuni economisti (fra cui il Prof. Modzelewski) hanno già criticato la legittimità di questa particolare forma di tassazione – è davvero eliminando l’imposta trasferendone l’onere su di un attore differente che si può combattere l’evasione fiscale?